L’Inevitabile certezza di Fabrice Hadjadj

Diciamolo subito. L’omo salvatico è hadjadjano fin dalla prima ora e fin dentro alle midolla. Questo filosofo francese usa la penna come Cyrano la spada. Ogni sua pagina è meglio di un bicchiere di vino rosso: inebria, riscalda, rinvigorisce le cellule. E’ un antidoto contro i sermoni soporiferi di preti part time e catechisti allo sbaraglio. Mezzo ebreo, mezzo arabo, “barbaro, barbaro, legittimo bastardo”, è la prova vivente che occhi azzurri più occhi azzurri, alla lunga, spengono lo sguardo e le civiltà. Di genitori maoisti, prima ateo poi nichilista, dopo qualche salto mortale anche lui è caduto ai piedi di una croce. Quest’anno è tornato al Meeting di Rimini con una prolusione dal titolo “l’inevitabile certezza: riflessione sulla modernità”. I ciellini sono rimasti ad ascoltarlo per oltre un’ora inchiodati alle loro sedie, alla fine, si è levato un interminabile applauso che ne celebrava la timida grandezza … Parlare di certezza ai tempi d’oggi, dice Hadjadj, non è di moda, si rischia di restare sepolti sotto il fuoco nemico degli adepti del dubbio e dei sondaggi di opinione. Dopotutto le certezze ideologiche del Novecento hanno prodotto una montagna di cadaveri di cui ancora si sente l’olezzo e quando all’orizzonte appare il cavalier Certezza, imputridito dentro la sua solida corazza, l’uomo liquido si sbatte, come una mosca nel barattolo, alla ricerca delle possibili vie di fuga. La vita, dice costui, non è poi certo un monolite, sta piuttosto dal lato del respiro e dell’acqua, è fresca, inafferrabile, capricciosa, assomiglia ai flutti di un mare aperto e senza confini. Questi aspiranti delfini che dicono che non c’è nessuna certezza, o meglio, che ciascuno ha le proprie certezze e che bisogna imparare a nuotare tra le cangianti correnti oceaniche non si rendono conto che senza branchie e con i piedi a mollo non vanno oltre le pareti di gomma della loro piscina domestica. Per non affondare nelle sabbie mobili abbiamo invece bisogno di un suolo su cui camminare, di una base solida su cui avanzare, certezza quindi non come pietrificazione ma come cammmino. Ciò che impedisce la marcia, ciò che paralizza e soffoca la vita è invece il dubbio e l’insicurezza generata dal dubbio. Lo diceva già Aristotele che il dubbio è ciò che incatena e la certezza è ciò che libera. Non sarà un caso che gli scettici, abituati a criticare tutto perchè privi di qualsivoglia certezza, rimangono sempre fermi al palo, incapaci di cambiare alcunchè. Quindi, è la certezza che ci mette in movimento dice Hadjadj. Va bene. L’abbiamo capito. Ma chi ci garantisce che questo movimento non porti con sè il rumore dei cingolati sull’asfalto o della macina sopra il grano? La risposta di Hadjadj è che la vera certezza si deve basare su una evidenza obiettiva che sta fuori di noi. Ovvero su qualcosa che non abbiamo deciso noi, che non abbiamo costruito noi, che ci è data e che ci balza agli occhi, perchè ciò che è soggettivo è per sua natura mutevole e quindi incerto. Questa evidenza dice il filosofo non viene per lusingarci, per stenderci tappeti rossi, ma per ferirci, per sconvolgere i nostri piani. In questo senso la certezza è inevitabile … Dice San Paolo: l’uomo non ha alcun potere contro la verità. Questa impotenza dell’uomo è una maledizione per l’orgoglioso ma una benedizione per l’umile il quale si apre così ad una potenza più alta e si consegna a qualcosa che non si aspettava e che lo supera … Da questo punto in poi la relazione di Hadjadj diventa un fiume in piena, incontenibile e straripante. La parafrasi salvatica risulterebbe un vestito troppo stretto. Ecco quindi di seguito i miei soli appunti … C’è un altro aggettivo che connota la certezza, dice  il nostro, questo aggettivo è immenso. Dire che la certezza è immensa significa che è più grande di noi e che supera la nostra misura, non siamo noi che possediamo questa certezza è lei che ci possiede. Siccome è più grande di noi, non ha niente di comodo, ci dilata, ci lacera … Questa immensa, inevitabile certezza contiene l’avvenimento di una chiamata a vivere nelle incertezze del nostro tempo. Il tempo postmoderno che dopo la morte di Dio vede, per la prima volta, l’inesorabile prospettiva della morte dell’Uomo, della sparizione annunciata, tuttavia, risveglia in noi la dignità più alta, quella di uno strappo verticale che grida verso il cielo, quella di una carità soprannaturale che è più forte della morte. A questo punto Hadjadj cita l’Elettra di Giraudoux dove una donna chiede nel mezzo del disastro: “come si chiama questo, quando si leva il giorno come oggi e che tutto è rovinato e che tutto è saccheggiato e che tuttavia l’aria si respira e che si è perso tutto e che la città brucia e che gli innocenti si uccidono tra loro ma che i colpevoli agonizzano in un angolo del giorno che si leva e un mendicante risponde alla donna: questo ha un nome molto bello, si chiama aurora”. La notte dei nostri tempi ci chiama ad un’altra aurora, la distruzione delle speranze mondane è l’occasione di attraversare la disperazione e di aprirsi più in profondità alla speranza teologale. Non si tratta di una fuga in una speranza che disprezza la terra, si tratta della missione di rischiarare la terra, non a partire da un avvenire utopico ma a partire dall’eterno. Dice Hadjadj, “se mi confermassero che nel dicembre 2012 ci sarà la fine del mondo questo non mi impedirebbe di avere un figlio nel novembre 2012, di scrivere poesie e di piantare un albero, perchè non faccio queste cose solo per l’avvenire terreno, le faccio perchè questo è già partecipare alla vita eterna”. La croce si erge all’orizzonte per dirci che non arriveremo mai alla felicità ma anche per rivelarci che valiamo più della felicità, che siamo fatti non per il benessere ma per l’essere buono non per la comodità della contentezza ma per la gioia lacerante dell’offerta. Dio non ci rimette mai sulla strada dritta, si serve delle nostre svolte dei nostri vagabondaggi delle nostre deviazioni per inventare una strada nuova, la strada unica di ciascuno, propria di ciascuno. La redenzione non consiste in un ritorno ad una situazione anteriore verso un paradiso terrestre qualsiasi prima della morte e del peccato, essa esige l’attraversata del peccato e della morte. Lo dice San Paolo, là dove il peccato ha abbondato la grazia ha sovrabbondato … Dopo la distruzione della certezza, nel mezzo dell’incertezza postmoderna legata alla scomparsa dell’uomo, quale immensa certezza ci rimane? Se la fede si fonda su una ideologia o su un reclutamento non può più tenere, Don Giussani l’aveva compreso e per questo reclamava che ciascuno ripartisse dall’esistenza. C’è qualcolsa e non niente. Io sono qui tu sei qui. Bisogna ripartire da questa evidenza dell’esistenza. Da questa certezza della vita presente. Bisogna cercare ora la sorgente del canto, non domani non ieri, ma ora. L’uomo nasce per vivere, non per prepararsi alla vita stessa. La parola esistenza descrive una esperienza, exsistere vuol dire tenersi fuori, nel doppio senso di provenire da e andare verso, quindi io sono, ma non mi sono dato l’esistenza da me stesso, non sono l’origine e il fine del mio essere, ho ricevuto l’esistenza da un altro e l’ho ricevuta per darla ad un altro. Il mio essere imperfetto conosce una crescita fino alla maturità. Che cosa è la maturità? Aristotele osserva che il termine di una crescita di un essere vivente coincide con il principio della sua capacità a generare. La maturità è quindi attitudine a comunicare la vita. Ecco dunque la certezza che si impone e che non abbiamo scelto, la nostra esistenza è ricevuta e deve compiersi dandosi. Ma da chi è stata ricevuta, quale è la mia origine al di là dei miei genitori? Sono il frutto del caso e della materia? E’ possibile agitando degli atomi a caso durante parecchi milioni di anni produrre una fotocamera digitale o qualcosa di più complicato come un occhio umano? Nel momento stesso in cui intuisco che la mia origine non può stare solamente nella materia ma anche in uno spirito più grande del mio e quindi migliore del mio non riesco più a comprendere la mia fine. Difatti perchè questo dono della vita se solo per morire? Che cosa accade nel momento in cui mi accorgo che l’esistenza è un dono ma mi accorgo anche che è un dramma? Chiarisco il fatto della mia esistenza perchè riconosco un creatore generoso ma questa stessa iluminazione produce un’altra oscurità, perchè questo creatore generoso permette il male? Perchè ci sono l’ingiustizia la sofferenza e la morte? Perchè mi abbandona in una tale oscurità? A che pro i dolori del parto se poi produrrano alcuni pugni di cenere in più, a che pro le parole se sono per un trionfo di un silenzio siderale. Vedete il terribile mistero, sono fatto per dare la vita, fisica e morale, ma non percepisco più chiaramente le ragioni per dare la vita. Ciò che è anomalo oggi è che anche riflettendo la ragione per comunicare la vita sembra sottrarsi alla nostra vista e superare le nostre forze. Ho ricevuto la vita e questo dono esige una speranza che va oltre questo mondo e attraversa la sua oscurità. Ciò che posso intuire è che questa oscurità non è soltanto una privazione di luce ma è anche la possibilità di partecipare all’opera della luce. Dio ci chiede di aprire una passaggio nell’empasse, non vuole soltanto che siamo rischiarati, ci spinge a sgorgare la luce nel fondo di noi stessi. Questa oscurità che ci spinge a lasciare scorgare la luce dal fondo di noi stessi per essere non soltanto rischiarati dalla luce ma anche sorgente di chiarore. E’ quello che si sente risuonare proprio nella preghiera del mattino nel cantico di Zaccaria, il Benedictus: “e tu Bambino sarai chiamato profeta dell’Altissimo perchè andrai innanzi al Signore a preparargli le strade per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio per cui verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge per rischiare quelli che stanno nelle tenebre”. Andare innanzi a preparare le strade non è accontentarsi delle vie battute ma trovare una via insperata grazie alla fede. Se non ci fosse questa oscurità, se tutto fosse dissodato tracciato masticato in anticipo Dio sarebbe meno generoso, saremmo i prodotti della sua opera e non i collaboratori della sua opera, ora lui ci vuole cooperatori. Dio vuole una certezza di cui noi siamo i cooperatori, un suolo stabile che possiamo dispiegare fin nel vuoto dell’avvenire attraverso tutto il nostro essere. Ricordate Isaia: “nel deserto preparate la via al Signore, appianate nella steppa le strade per il nostro Dio. Tu facevi del tuo dorso un suolo e come una strada per i passanti”. Nel salmo di Davide è scritto: “Beato chi trova in sè la sua forza e decide nel suo cuore il santo viaggio passando per la valle della sete la cambia in sorgente”. Siamo nella valle della sete, nella valle di lacrime come dice la traduzione latina ripresa nel Salve Regina. Vediamo a perdita d’occhio il deserto e la siccità ma questa angoscia è il segno che siamo fatti per la gioia di vivere. Se non avessimo prima in noi questa gioia di vivere non potremmo avere neanche l’angoscia davanti alla morte. Questa siccità è il segno che siamo fatti per scavare fino alla sorgente perchè se non fossimo fatti per la sorgente non sentiremmo questa sete tanto bruciante affinchè non siamo soltanto dissetati ma anche che diveniamo canale della sorgente. Ecco l’immensa certezza dell’esistenza, immensa perchè è lacerante e ci chiede di scendere tra quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte. Ma adesso possiamo qualificare la certezza con un terzo aggettivo: apocalittico. La certezza dell’esistenza è anche apocalittica, la parola apocalisse ha assunto il significato di catastrofe ma etimologicamente essa significa rivelazione. Tale è la certezza nuda, la certezza che riappare dopo la scomparsa delle false speranze e il superamento delle vere disperazioni. La certezza che si scopre una volta che la nostra vita è sbarazzata dagli orpelli di tutte le immature innovazioni e spogliata dalle certezze ideologiche della modernità come dalle certezze mortali della postmodernità. Non ci resta che questo ed è ben più grande dei nostri bei sogni devastati. Una immensa inevitabile certezza di apocalisse, la necessità di una speranza che attraversa la notte oscura, l’esigenza di una vita chiamata a darsi più fortemente della morte, la novità di un’esistenza feconda che apre cammini nuovi nella strada senza uscita, che manifesta la gloria attraverso la croce, che porta una rivelazione sin nel cuore della catastrofe.

Recinti

Ancora una volta qui, salita dopo salita, tornante dopo tornante, sono arrivato anche quest’anno sull’altopiano delle Serre, per ritrovarmi davanti allo  stesso immenso portone che già so, rimarrà sbarrato … Quella del monastero certosino è una soglia che non si varca. Il solito cartello comunica, con modi garbati, che per favorire la meditazione e la preghiera dei monaci  non è consentito l’accesso di visitatori alla certosa. Giro le spalle e torno sui miei passi per la consueta  passeggiata attorno alle mura di cinta, fortificate da stupendi torrioni simili a coni di gelato rovesciato. Architettura inconsueta che parla della storia di un uomo, San Bruno da Colonia, e dei suoi confratelli che, nell’anno mille, fondano la prima comunità di monaci in Francia, sulle montagne della Chartreuse, per poi portare in Calabria, alle porte del Mediterraneo, un pezzo del cuore profondo dell’Europa.

 Che ci faccio ancora qui? All’esterno di quattro inaccessibili mura che ormai conosco meglio delle mie tasche … Perchè tornare, anno dopo anno, senza vedere, incontrare, toccare? Che cosa ha da dirmi una comunità di monaci invisibili, al punto, da incominciare a pensare che in fondo possa essere già  estinta e che ciò che aleggia nell’aria non è nient’altro che la sua ombra, l’ombra di Kakemusha? … Eppure sono persuaso che proprio qui, davanti ad un portone chiuso, ci sia ancora  qualcosa da imparare. L’uomo occidentale ha, da tempo, lasciato la terra e preso il largo, nel mare aperto senza limiti e confini. Con la sua carta di credito può raggiungere qualsiasi angolo del pianeta, può comprare titoli nei più disparati mercati, beni di ogni genere su tutte le piazze del mondo, ma non può entrare nel monastero di Serra San Bruno. Qui non c’è moneta, non c’è scambio, non c’è negozio. Qui le relazioni si danno gratuitamente secondo il giogo dolce di Cristo e si custodiscono e difendono attraverso un confine ben definito e marcato da alte e spesse mura.

La situazione, i luoghi, lo spazio mi rimandano a quanto avevo letto una volta sul “Nomos della Terra” di Carl Schmitt: “In principio sta il recinto. Recinto, recinzione, confine determinano profondamente nei suoi concetti il mondo formato dagli uomini. La recinzione è ciò che produce il luogo Sacro sottraendolo al consueto, sottoponendolo alla sua propria legge, consegnandolo al Divino”. Questa immagine mi aveva così profondamente impressionato da averla assunta a coronamento del mio matrimonio. In fondo anche questa è una vocazione! A proposito di rito nuziale mi aveva colpito, tempo fa,  vedere ad Atene due coniugi ortodossi infrangere i loro calici dopo aver bevuto l’uno nell’altro, ciò perchè nessuno vi potesse più bere … Cingere i fianchi, tracciare un cerchio, definire, delimitare, significa in qualche modo dare forma all’informe, appartenere, radicarsi, scegliere la terra. Dopotutto il mare non ha carattere, dice Schmitt, parola che deriva dal greco charassein, che significa, appunto, scavare, incidere, imprimere. “Nel mare non è possibile seminare e neanche scavare linee nette. Le navi che solcano il mare non lasciano dietro di sè nessuna traccia. Sulle onde tutto è onda.”

Iconografie dissonanti

 

 

I cattolici moderni hanno scambiato la GMG per un grande happening, un rave di orrendi “bravi ragazzi” che saltano, cantano e ridono come scimmiette   nel circo mediatico … Celine l’aveva profetizzato: “L’avvenire, io so come sarà … Una grande ammucchiata a non finire … con in mezzo un pò di cinema …”. A te che sei a Madrid, sull’ultima frontiera a ridosso del precipizio, sotto l’assedio di stelle filanti e fuochi d’artificio, ricordo che sei fatto per un’altra natura. Sei fatto per guardare negli occhi le fiere che si fanno incontro nell’arena della vita, con le braccia levate al cielo per ricevere dal Padre la forza di rimanere  semplicemente al tuo posto, immobile come una montagna.

Una grande, irenica Chiesa da Che Guevara a Madre Teresa


Jovanotti è il nuovo guru di “Famiglia Cristiana”. E’ in uscita con la rivista una collana chiaramente ispirata ad un suo motivetto che fa più o meno così: ” Io credo che a questo mondo esista solo una grande Chiesa che parte da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa, passando da Malcon X attraverso Gandhi e San Patrignano,” arriva in periferia nonostante il Vaticano. Dieci volumi per dieci “uomini liberi”, dieci “rivoluzionari”, a occhio e croce,   decine di quintali di cellulosa che riducono  gli esigui  confini della foresta aumentando a dismisura il nostro debito d’ossigeno negli  asfittici  territori contemporanei … Salgo ad alta quota per non respirare i miasmi di quest0 cattolicesimo irenico, ormai allo sbando e senza rotta, e trovo le pagine ingiallite di Gustave Thibon, filosofo contadino, che  mai e poi mai vedremo ripubblicate da questi asini senza ali che sbavano per l’erba avvelenata del vicino ignorando il tesoro di sapienza che calpestano sotto i piedi. Li ritrovo genuflessi davanti agli altari del nostro tempo offrire incenso agli idoli della Pace, della Libertà e della Scienza (Gandhi, Mandela e la Montalcini), senza nemmeno sapere cosa sia la vera Pace, l’autentica Libertà e la profonda Conoscenza. A questi idolatri che hanno la pretesa di tenere per sé l’amore   cestinando Dio. A questi rivoluzionari in provetta, sognatori di un mondo diverso, “chi vivrà vedrà”, Thibon avverte  che la febbre rivoluzionaria  in realtà è una sorta di  surrogato nell’anima assetata di un’impossibile conversione. E’ un ripiego per chi è incapace di una autentica rivoluzione interiore. Un rimedio per chi vuole salvarsi, ma senza fatica, senza fratture, schianti, abissi. Questi frequentatori delle retroguardie che pullulano anche nelle file della Chiesa con il nome di farisei “ordinari” fuori da essa sono definiti dal nostro “farisei romantici”. Tipi inariditi, febbricitanti, scontenti di se stessi che,  a un certo punto della loro vita, diventano desiderosi che tutto cambi. Ma solo all’esterno, fuori dalla loro molle corteccia, attraverso la nuova Religione della città: il messianismo politico … In fondo, queste due specie di fariseismo hanno in comune lo stesso rifiuto di fare  i conti con la propria storia, prediligono l’indice puntato verso gli altri e piegano Dio ai loro scopi, quasi fosse un comodo scendiletto, prostituendo così il cielo alla terra.

Io non vado in vacanza

Scrive Langone sul Foglio di oggi: “Non vado in vacanza per le solite ragioni, accidia, snobismo, il dovere e il piacere di garantire una presenza quando intorno tutto è assenza, e per una ragione nuova. L’altro giorno a Reggio Emilia, in attesa del concerto di Giovanni Lindo Ferretti (un altro che a occhio e croce in vacanza non ci va), il mio amico Gherardini mi ha raccontato di avere incontrato in spiaggia, qualche settimana fa a Ibiza, una ottantenne nuda. In una spiaggia normale, non per nudisti. L’esperienza sembra averlo molto segnato. Io di preciso non so se anche in Italia questi panteisti penduli hanno sfondato i recinti riversandosi nei comuni arenili. Nel dubbio sto tanto bene a casa mia.” …  Aggiungo, non vado in vacanza perchè la carne nuda vuole la penombra e sotto i riflettori solari diventa pornografica.  Non vado in vacanza perchè sono bianco e mammifero e non ci penso proprio a diventare una oziosa lucertola mulatta. Non vado in vacanza perchè il tempo libero è un’invenzione e un’esigenza dell’uomo socialmente tecnico e io sono e rimango un uomo del bosco. Uno che guarda, con qualche nostalgia, a quei contadini di Giono per i quali arare,  seminare, falciare e nello stesso tempo mangiare, fare figli e respirare liberamente l’aria dei campi, è un pò come fare la stessa cosa.  Tutto è  lavoro, e niente è lavoro. Tutto è semplicemente vita.