Ci voleva il Papa perchè si aprissero, come d’incanto, le porte della Certosa. I volti scolpiti dalle preghiere notturne e dal rintocco che penetra la bruma fioriscono, all’improvviso, come ginestre “contente del deserto”. Capi tosati, come di soldati, e lunghe barbe di antichi profeti sbucano dalle cocolle eburnee che sfidano la luna. Quanto vorrei che questi solitari con in mano la Croce tornassero nei deserti metropolitani. Quanto vorrei che avessero cura di bonificare, come un tempo le terre paludose, i nostri formicai brulicanti e inquinati da una mentalità che non è più cristiana e tantomeno umana. Pietro ha bisogno di Bruno, dice il Santo Padre nella sua omelia, Caino ha bisogno di Abele, grida la selva! Il progresso tecnico – prosegue il Papa – ha forse reso più confortevole la vita, ma allo stesso tempo ha trasformato il quotidiano in un groviglio sempre più concitato e disordinato. Le città moderne hanno dimenticato la dimensione del silenzio e un rumore di fondo le pervade anche di notte. I media hanno diffuso e amplificato la virtualità che rischia di dominare sulla realtà. I più giovani poi sembrano voler riempire di musica e di immagini ogni momento vuoto, quasi per paura di sentire, appunto, questo vuoto. Questo stato di cose rischia di travolgere l’uomo ultimo ma esalta – secondo il Santo Padre – il carisma proprio della Certosa, che si offre come un dono prezioso all’umanità intera. Il Papa riassume con splendide parole questo carisma: “ritirandosi nel silenzio e nella solitudine, l’uomo, per così dire, si “espone” al reale nella sua nudità, si espone a quell’apparente “vuoto” per sperimentare invece la Pienezza, la presenza di Dio, della Realtà più reale che ci sia, e che sta oltre la dimensione sensibile. E’ una presenza percepibile in ogni creatura: nell’aria che respiriamo, nella luce che vediamo e che ci scalda, nell’erba, nelle pietre… Dio, Creator omnium, attraversa ogni cosa, ma è oltre, e proprio per questo è il fondamento di tutto. Il monaco, lasciando tutto, per così dire “rischia”: si espone alla solitudine e al silenzio per non vivere di altro che dell’essenziale, e proprio nel vivere dell’essenziale trova anche una profonda comunione con i fratelli, con ogni uomo … Qualcuno potrebbe pensare che sia sufficiente venire qui per fare questo “salto”, prosegue il Santo Padre. Ma non è così. Questa vocazione, come ogni vocazione, trova risposta in un cammino, nella ricerca di tutta una vita. Non basta infatti ritirarsi in un luogo come questo per imparare a stare alla presenza di Dio. Come nel matrimonio non basta celebrare il Sacramento per diventare effettivamente una cosa sola, ma occorre lasciare che la grazia di Dio agisca e percorrere insieme la quotidianità della vita coniugale, così il diventare monaci richiede tempo, esercizio, pazienza “in una perseverante vigilanza divina”; e proprio in questo consiste la bellezza di ogni vocazione nella Chiesa: dare tempo a Dio di operare con il suo Spirito e alla propria umanità di formarsi, di crescere secondo la misura della maturità di Cristo, in quel particolare stato di vita. In Cristo c’è il tutto, la pienezza; noi abbiamo bisogno di tempo per fare nostra una delle dimensioni del suo mistero. Potremmo dire che questo è un cammino di trasformazione in cui si attua e si manifesta il mistero della risurrezione di Cristo in noi. A volte, agli occhi del mondo, conclude il Papa, sembra impossibile rimanere per tutta la vita in un monastero, ma in realtà tutta una vita è appena sufficiente per entrare in questa unione con Dio, in quella Realtà essenziale e profonda che è Gesù Cristo”.