Sensei

 

Ieri, nel giorno del tuo novantesimo compleanno, ti sei alzato – ultimo sussulto prima del tramonto – per ringraziare e salutare figli e nipoti. Mi è sembrato di rivedere davanti ai miei occhi la scena del saluto del professor Uchidu ai suoi ex allievi nel film Madadayo. Nel convito rituale gli studenti, ormai adulti, chiedevano in coro al loro maestro, maadha kai? (sei pronto a morire?)  e lui rispondeva, anno dopo anno,  madadayo! (non sono pronto!). Dopo l’ultimo compleanno il professor Uchidu, in sogno, si rivedeva bambino a giocare nei campi a nascondino. Gli amici lo cercavano e nel contempo gridavano, maadha kai? E lui rispondeva ancora, madadayo! quando un bagliore di sole lo raggiunse nel suo nascondiglio … Quel sole era così bello che nulla più lo tratteneva ad andare incontro alla luce …

Estraniamento

 

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Ieri al parco mentre i bambini giocavano ho provato una sensazione di desolante estraniamento. L’erba era alta come nella savana dopo il periodo delle piogge. Oltre gli sterpi imbalsamati uno sciame di donne avvolte in coloratissimi sari confabulavano lente sotto la canicola. Mi sono detto, stare qui corrisponde a un altrove che non mi appartiene. Il fico indiano che avete piantato nel mio giardino sarà pure l’albero del satori, ma non ha le mie radici i miei rami i miei fiori. Io dico, il mio Dio mia moglie e i miei figli, non perché rifiuto o disprezzo l’altro, ma perché l’amore, dice il poeta aviatore, non è una entità messa lì per caso come un oggetto tra gli altri, ma il coronamento di un cerimoniale, un lento processo di approssimazione e insondabile avvicinamento.

La campana

Appena ho visto la campana di Pietrosanti trafitta da mille fucili, in esposizione alla Triennale di Milano, ho ripensato ai più bei versi cristiani, scritti da un algido poeta, nichilista pagano: Gottfried Benn. Li recito a memoria, come un mantra ossesivo che ogni giorno percuote le mie corde “… Di sonno non ho bisogno. Di cibo quanto basta per non crepare! Inesorabile è la lotta, e il mondo è irto di punte di spade. Tutte hanno fame del mio cuore. Una per una devo, disarmato, fonderle nel mio sangue”.

Alla Triennale di Milano, dal 9 maggio al 10 giugno 2018, è in mostra “Non avere timore” sul tema dell’Annunciazione, nato dall’esperienza di un eremitaggio condiviso tra Roberto Pietrosanti e Giovanni Lindo Ferretti. 

Recinti

Ancora una volta qui, salita dopo salita, tornante dopo tornante, sono arrivato anche quest’anno sull’altopiano delle Serre, per ritrovarmi davanti allo  stesso immenso portone che già so, rimarrà sbarrato … Quella del monastero certosino è una soglia che non si varca. Il solito cartello comunica, con modi garbati, che per favorire la meditazione e la preghiera dei monaci  non è consentito l’accesso di visitatori alla certosa. Giro le spalle e torno sui miei passi per la consueta  passeggiata attorno alle mura di cinta, fortificate da stupendi torrioni simili a coni di gelato rovesciato. Architettura inconsueta che parla della storia di un uomo, San Bruno da Colonia, e dei suoi confratelli che, nell’anno mille, fondano la prima comunità di monaci in Francia, sulle montagne della Chartreuse, per poi portare in Calabria, alle porte del Mediterraneo, un pezzo del cuore profondo dell’Europa.

 Che ci faccio ancora qui? All’esterno di quattro inaccessibili mura che ormai conosco meglio delle mie tasche … Perchè tornare, anno dopo anno, senza vedere, incontrare, toccare? Che cosa ha da dirmi una comunità di monaci invisibili, al punto, da incominciare a pensare che in fondo possa essere già  estinta e che ciò che aleggia nell’aria non è nient’altro che la sua ombra, l’ombra di Kakemusha? … Eppure sono persuaso che proprio qui, davanti ad un portone chiuso, ci sia ancora  qualcosa da imparare. L’uomo occidentale ha, da tempo, lasciato la terra e preso il largo, nel mare aperto senza limiti e confini. Con la sua carta di credito può raggiungere qualsiasi angolo del pianeta, può comprare titoli nei più disparati mercati, beni di ogni genere su tutte le piazze del mondo, ma non può entrare nel monastero di Serra San Bruno. Qui non c’è moneta, non c’è scambio, non c’è negozio. Qui le relazioni si danno gratuitamente secondo il giogo dolce di Cristo e si custodiscono e difendono attraverso un confine ben definito e marcato da alte e spesse mura.

La situazione, i luoghi, lo spazio mi rimandano a quanto avevo letto una volta sul “Nomos della Terra” di Carl Schmitt: “In principio sta il recinto. Recinto, recinzione, confine determinano profondamente nei suoi concetti il mondo formato dagli uomini. La recinzione è ciò che produce il luogo Sacro sottraendolo al consueto, sottoponendolo alla sua propria legge, consegnandolo al Divino”. Questa immagine mi aveva così profondamente impressionato da averla assunta a coronamento del mio matrimonio. In fondo anche questa è una vocazione! A proposito di rito nuziale mi aveva colpito, tempo fa,  vedere ad Atene due coniugi ortodossi infrangere i loro calici dopo aver bevuto l’uno nell’altro, ciò perchè nessuno vi potesse più bere … Cingere i fianchi, tracciare un cerchio, definire, delimitare, significa in qualche modo dare forma all’informe, appartenere, radicarsi, scegliere la terra. Dopotutto il mare non ha carattere, dice Schmitt, parola che deriva dal greco charassein, che significa, appunto, scavare, incidere, imprimere. “Nel mare non è possibile seminare e neanche scavare linee nette. Le navi che solcano il mare non lasciano dietro di sè nessuna traccia. Sulle onde tutto è onda.”

Noi pochi, noi felici pochi, noi manipolo di fratelli …

Ci sono suoni, immagini, odori che rimandano a qualcos’altro, capaci di proiettarci nel nostro passato. Quasi come salire sulla macchina del tempo per un viaggio a ritroso nelle pieghe recondite delle nostre emozioni. Così è per me ogni volta che rivedo Kenneth Branagh nelle vesti di Enrico V arringare i suoi uomini prima della battaglia di Agincourt. Potrei descrivere come fosse oggi quella sera di molti anni fa quando ho visto per la prima volta questo film insieme ad una allegra ciurma di universitari, un pò folli, un pò ribelli, ultimi epigoni di un’età sepolta. Ero a casa di uno di loro, una casa siciliana a ridosso della Sapienza, covo, ritrovo di questi inguaribili sognatori, sempre controcorrente come i salmoni, stretti, costretti tra l’indifferenza e l’odio della moltitudine benpensante. Loro sì che li conoscevano i versi di Shakespeare, rimati, cantati a sigillo della loro amicizia: “Noi pochi, noi felici pochi, noi manipolo di fratelli” … questi sapidi temerari abitavano per scelta avamposti di frontiera dove fischiano gli spari dei cecchini … A distanza di anni, quando ho sentito proclamare il Vangelo di Giovanni: “Questo è il mio comandamento: dare la vita per i propri amici” ho rivisto scorrere davanti ai miei occhi tutti loro volti.

Benvenuta Benedetta

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Ti ho vista per la prima volta a testa in giù, presa dalle caviglie, con le braccia appese come nel martirio di San Pietro. Per tuo fratello era stato diverso, era sgusciato da sua madre come un missile verso l’alto, subito avvolto in un panno verde, il mio, il suo colore. Gli altri erano passati come una meteora che lascia una traccia indelebile sopra ogni abisso. Uno era stato annunciato da segni che evocano la morte e invece erano echi rimbombanti di vita … perdite irregolari, sempre più irregolari diventavano dubbio e poi certezza di qualcosa che lottava per l’esistenza. Dopo poco il verdetto, quell’inerme combattente per la vita era già stato, soffocato in un fiume di sangue, andato, perduto e pianto senza nemmeno uno sguardo, senza nemmeno un saluto. L’altro, si era fatto almeno scrutare dallo schermo dell’ecografo, il tempo di un bacio, di un abbraccio, di un malinconico sorriso e anche quel puntino agonizzante era sulla strada del cielo. Sì del cielo! Così mi aveva detto un giorno un prete, uno di quelli per cui vale la pena versare l’otto per mille, non è morto, è in cielo! Ecco allora i miei quattro figli: uno in terra, due in cielo e fino a ieri uno in pancia. Ricordo quando anche tu eri una piccola, meravigliosa pulsazione che si accendeva e spegneva come una lampada ad intermittenza spiata nell’utero materno. Eri già vita, straordinaria voglia di vita che vinceva e si imponeva nel buio di una stanza. Guardare ai piccoli, agli infinitesimi, ai fragili eppure così forti grumi di vita per imparare la vita, per entrare radiosi negli anfratti sterili della nostra esistenza. Questo ho imparato, questo ho capito … Sei nata sotto la protezione di Maria, sub tuum presidium recita la devozione antica, invocata, supplicata con in mano un rosario impugnato come una spada. Sono stato subito convocato in una stanza per essere informato, con un giro di parole, che insomma eri un caso di trisomia 21. Le tue braccia spalancate al mondo, come la piazza di San Pietro, uno dei sintomi. Questa cosa non andava, i bambini nascono ipertonici con le braccia rattrappite e strette al petto. Il primo pensiero è stato che il cristianesimo è davvero scandalo e stoltezza … se provi ad entrare nella vita con le mani in alto, innocuo, inoffensivo, senza alcuna opposizione, senza alcuna resistenza, una richiesta d’amore che sfida la paura e l’indifferenza, non sei normale … Sicuro di non essere capito ho ringraziato i medici che mi hanno chiesto insistentemente  se avevo capito. Un cenno del capo la mia risposta … A questo punto avevi bisogno di un nome. A dirla tutta era stato pensato da tempo, ma soltanto ora veramente scelto. Doveva essere Benedetta per gratitudine, infinita gratitudine al Santo Padre, il mio Papa, il mio papà. Poi Benedetto da Norcia padre del monachesimo occidentale, Patrono d’Europa, insomma uno cui affidarsi senza timore di non essere ascoltato. Da un pò di tempo, non a caso, cerco casa sulle montagne sopra Subiaco … All’improvviso mi era chiaro che il tuo nome aveva a che fare con il mio cammino di fede, tutto ciò che avevo ascoltato, tutto ciò che avevo letto, meditato, condiviso con i miei fratelli si dava appuntamento con te, ora! Mi riaffioravano alla mente le parole di un vecchio monaco certosino viste ne “Il grande silenzio”: “poichè Dio è un essere infinitamente buono cerca sempre il nostro bene e in tutto ciò che ci capita non vi è ragione di temere. Spesso ringrazio Dio per avermi reso cieco. Sono certo che è stato per il bene della mia anima se ha permesso ciò”. Mi ero inchinato un tempo dinanzi a tanta forza, oggi ero chiamato ad inchinarmi e onorare la tua debolezza. “Al forte è affidato l’indifeso” ripetevo, tra me e me. Poi mi veniva in soccorso, ancora una volta, una frase annotata sul mio taccuino: “Rabbi Abraham Yeshaya Karelita si alzava sempre solennemente in piedi in presenza di una persona affetta dalla sindrome di Down: se l’Eterno aveva privato costui della capacità di studiare a fondo la Torah – diceva – il motivo è che egli è già abbastanza perfetto ai suoi occhi”. All’alba del 21 di maggio tra le lacrime vergavo sul mio moleskine queste parole: “Benvenuta Benedetta … Ti venererò come il mio Signore sulla Croce .. Tuò papà”; che io non debba mai cedere da questo proponimento, ingiunsi ad ogni particella del mio corpo … Messo il vestito buono sono tornato in ospedale da te e da mamma. Nel tragitto tra ostetricia e neonatologia io e tua madre abbiamo incontrato il medico che aveva fatto la prima diagnosi. Ci ha detto con un grande sorriso che i sintomi erano regrediti e tu eri stata rivalutata, insomma la stessa diagnosi ribaltata. Te laudamus Domine.

“A Cuor Contento”

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Sono un certosino, certosino metropolitano. Vivo nella periferia romana aggrappato alla Chiesa che nutre e avvolge. Moglie e un grappolo di figli tra terra e cielo, uno in pancia … presto sarà un volto, un nome, una promessa di vita eterna. Esco dalla mia cella per l’orazione notturna. Questa è la notte del canto intonato da Giovanni Lindo. Rispondo alla sua chiamata, rispondo al suo appello: “fatevi avanti, monache e monaci, famiglie in carne e sangue d’amore, santi, poeti, eroi, navigatori astrali” … Sono qui per cercare i fratelli, altri solitari del chiostro, quelli che si ritrovano in cerchio davanti a un amico che vola in cielo, quelli che sgranano rosari davanti alle sale parto, quelli che hanno l’ardire di fare presepi nei luoghi straziati dal dolore e dal pianto … “la nuova età di mezzo è già in atto, tocca a voi l’onere e l’onore di traghettarla al poi” … Arrivo al locale primi ‘900 all’Ostiense, apro la porta dell’armadio e mi ritrovo catapultato nel paese di Narnia, dove è sempre inverno e mai Natale, un bunker buio pesto che nega la vista al cielo e alle luminose stelle, simile al cubo-incubo, senza Cristo senza Croce, di Fuksas. Sono tutti lì, sotto il palco, i simpatici abitanti di Narnia, c’è il fauno Tumnus, dalla cintola in sù uomo, fianchi e gambe di capra, lo chiamano punkbestia ed è molto esagitato, ci sono sciami di Nanetti Rossi, pelosi abitanti del sottosuolo, c’è la  signora Castora, borsa di Fendi e pugno chiuso, vanità delle vanità, tutto è vanità! Speravo altro, ma ci s’accontenta … Sul palco, una grande tavola di pietra, compare Giovanni Lindo e canta

“Se l’obbedienza è dignità, fortezza / la libertà è una forma di disciplina / assomiglia all’ingenuità la saggezza

Tumnus danza, da una parte all’altra del palco, danza, sfatto, disfatto, strafatto, danza. Si dice libero, liberato dal giogo di Cristo … Libero di schiantarsi al suolo senza paracadute … e non mi sembra una conquista!

Indifferenti al mistero che ci nutre e ci avvolge / schiavi delle voglie, sensibili e patetici … fecondi d’aborto e / democratiche soluzioni eutanasiche

Giovanni Lindo si muove sul palco come un maestro di Aikido, usa l’energia dell’avversario per andare avanti ed entrare nel suo spazio

Sogno Tecnologico Bolscevico / Atea Mistica Meccanica / Macchina Automatica – no anima / Ecco la Terra in Permanente Rivoluzione / Ridotta imbelle sterile igienica / Una Unità di Produzione

Cantano tutti in coro, braccio teso e pugno chiuso, io rimango in silenzio … non conosco le parole! Dopo una serie di evoluzioni circolari il maestro arriva al centro dell’avversario, prima lo destabilizza, poi lo stende …

Il Dio d’Abramo Iddio / L’unico Dio ch’io adoro / Misericordioso Dio / Giusto clemente Dio / Onnipotente Iddio / L’unico Dio che io adoro …  Signore Dio bambino / Carne di ragazzina vergine e madre / A Lui io rendo culto / Lui mi rapisce il cuore il mio Signore mio Dio

Aveva promesso di non parlare e invece queste le sue parole annotate sul mio taccuino

Sconnessioni temporali, polaroid da un’altra vita, un’altro secolo, altro millennio  … io urlavo sempre, un nervo scoperto, un’inquietudine fatta corpo, stati di agitazione in forma di canzone, non professione d’arte ma impulso vitale …  lo soffocammo tra i calcinacci del muro di Berlino e dissi mai più …

Si definisce residuo salmodiante, che sussurra, modula, scandisce manciata di scongiuri, preghiere, grazie ricevute, maledizioni, invocazioni … cerimoniere di un rito a cuor contento che canta il sangue, la fede e la gioia.

In “cronaca del ritorno” parla di sè ma anche della mia storia. La canto a squarciagola sul motorino sotto il casco nelle belle giornate di sole.

Canto ballo rido, allegro mi dispero / montano italico cattolico-romano a cuor contento / nel tempo dello smarrimento / scampato a gelate precoci e / a infestazioni a parassiti / alla rancorosa sequela delle rivendicazioni    

Si spengono le luci sul palco e mi dirigo verso l’uscita quando incontro finalmente un figlio di Adamo. Ha frequentato la stessa grotta, l’utero che ci ha generati, prima io, poi lui

Non c’è lama che possa recidere la languida catena

GENERAZIONE SU GENERAZIONE

Per mille anni …